Viaggio alla ricerca dello zolfo nisseno
A est del fiume Platani, tra paesaggi aridi e desolati, si estende uno dei più importanti bacini minerari d'Europa denominato altipiano solfifero che ricopre una vasta area dell'entroterra siciliano (circa 5 mila kmq), occupando gran parte delle province di Agrigento, Enna e Caltanissetta. L'enorme bacino, noto fin dall'antichità e a lungo sfruttato in superficie, dal XIX secolo ha visto l'inizio di forme di estrazione intensiva, con sistemi di coltivazione in profondità e con attività estrattive a carattere marcatamente industriale.
Si tratta di una formazione gessosa solfifera risalente al miocene superiore costituita per lo più da gessi e argille associati a minerali dello zolfo e salgemma. Dalla presenza di questo minerale deriva il nome del fiume Salso o Imera che percorre tutta una lunga vallata al confine tra le province di Enna e Caltanissetta.
Anticamente lungo il corso di questo fiume sorsero centri come Sabucina e Gibil-Gabib, abitati sin dalla preistoria, divenuti adesso siti archeologici di grande interesse. In epoca più recente invece, vicino alle acque di questo fiume fiorì la cosiddetta civiltà delle zolfare che ha profondamente segnato l'economia e la storia di questi luoghi per tutto il secolo scorso.
In provincia di Caltanissetta si trovano ancora oggi diversi impianti di estrazione ormai caduti in disuso ma ben conservati. Nelle basse casupole del Villaggio Santa Barbara, vivevano i minatori che lavoravano nelle vicine zolfare di Trabonella e Gessolungo a circa 2 km di distanza, sul versante del monte Sabucina. La zolfara Trabonella è una delle tante miniere che tra la fine dell'800 e l'inizio del 900 erano in attività nella provincia di Caltanissetta. Questa miniera è testimone di periodi di floridezza e di altri di tragico lutto. Nel 1867 infatti, per uno scoppio di gas all'interno delle gallerie con conseguente incendio, morirono ben 42 operai.
La Trabonella apparteneva al barone Morillo ed era, come abbiamo già detto, la più grande delle miniere nissene sia per il numero di operai sia anche per la dotazione di attrezzature estrattive. Nel 1911 un'altra grave sciagura segnò la storia della miniera a causa di uno scoppio di grisou infatti, si sviluppò un incendio che sarebbe durato 10 giorni nel quale morirono 40 operai e 16 rimasero feriti. Sia a Trabonella che a Gessolungo ci sono ancora impianti di estrazione con castelletti in metallo ormai malridotti che segnalano la presenza dei pozzi verticali.
Questi, verso la fine dell'800, iniziarono a sostituire le antiche discenderie, ripidi e angusti corridoi attraverso i quali il minerale veniva trasportato a spalla dai carusi.
E' possibile visitare inoltre, i condotti di areazione e le torri di riflusso, circondate da grigie montagne di gesso interrotte qua e la dalle macchie rosse dei rosticci (residui del processo di fusione); le fornaci dove il minerale veniva accatastato e bruciato per separare dalla ganga (gesso, calcare, argilla) lo zolfo liquido, che colava per raccogliersi nelle apposite forme; le calcarelle che disperdevano nell'atmosfera micidiali quantità di anidride solforosa; i calcaroni, in uso dopo il 1850 dove la combustione avveniva sotto una copertura di rosticci e i forni Gill con la loro serie di celle e caratteristici camini. A circa 5 km, una strada tortuosa in salita conduce agli scavi archeologici di Monte Sabucina dove sono state rinvenute una necropoli con tombe a grotticella della prima età del bronzo ed un villaggio sicano ellenizzato del XII secolo.
A circa 3 km dalla zona archeologica invece, si trova ponte Capodarso e, scendendo lungo una stradella che lo sottopassa, la miniera Giumentaro, la più recente e meglio conservata della provincia dove è ancora visibile un pozzo di estrazione con il castelletto in ferro.
Superato il centro abitato di Riesi dopo circa 15 minuti di strada, in corrispondenza del ponte Muntina, sulla destra si può ancora ammirare una delle più grandi solfare siciliane: la miniera Trabia-Tallarita. Il bacino è attraversato dal Fiume Salso che divide la parte spettante a Tallarita, a sinistra, dalla parte spettante a Trabia, a destra. Nella miniera Trabia, denominata in passato Solfara Grande, i primi lavori estrattivi ebbero inizio intorno al 1730, con metodi rudimentali per via della poca profondità degli scavi e l’abbondanza del materiale disponibile. A partire dal 1830 però, grazie all'introduzione di nuovi mezzi meccanici l'attività assunse una maggiore rilevanza. Attorno alle miniere fu edificato pure un villaggio presso il quale vi erano una stazione dei carabinieri, un ufficio postale, una cappella, uno spaccio e gli alloggi per 300 dipendenti e relative famiglie. Nel 1957, in conseguenza di una esplosione di grisou, franò un pozzo (Scordia) che causò molte perdite umane. La miniera fu chiusa nel 1975.
Particolarmente suggestivi sono i resti delle infrastrutture di lavorazione, tra i quali l’interminabile sequenza dei forni Gill (sistema più moderno di fornaci per la fusione).
A Caltanissetta si trova inoltre, il Museo Mineralogico, Paleontologico e della Zolfara, nato nel 1979 e unico nel suo genere nel meridione d'Italia che raccoglie minerali di tipo gessoso solfifero, rocce e fossili rari e conserva la documentazione riguardante la vita nelle Solfare. Un vero e proprio museo delle attività minerarie dello zolfo. I visitatori possono osservare anche la ricostruzione in scala di uno spaccato di miniera con il pozzo di estrazione, gallerie, discenderie, rimonte, fornelli e cantieri, forni, torre di estrazione del "pozzo grande".
Storia delle zolfare - In Sicilia la storia dello zolfo ha origini lontane, difatti l'estrazione e la commercializzazione di questo minerale sono documentate sin dall'età del Bronzo. Lo sfruttamento sistematico del sottosuolo però iniziò solo alla fine del '700, in coincidenza con lo sviluppo dell'industria chimica in Francia e in Inghilterra. La grande richiesta di acido solforico per la produzione della soda, fece aumentare le richieste di zolfo, stimolando la ricerca e l'apertura di nuove miniere.
Quando masse di contadini passarono dai campi alle miniere, nacque la Sicilia delle zolfare e degli zolfatari. Per un periodo di oltre 150 anni infatti, le miniere di zolfo costituirono una delle principali fonti di reddito per molti comuni dell'entroterra nisseno ed ennese, aprendo un settore di attività del tutto nuovo nel panorama economico dell'area che ha offerto lavoro a molte famiglie tradizionalmente contadine.
Accanto al contadino, al pastore, all'artigiano si affiancò, quindi, la figura del minatore. I comuni interessati all'attività estrattiva legarono i propri destini alla zolfara indissolubilmente tanto che i contadini progressivamente abbandonarono i campi per adattarsi a un lavoro disumano, in cunicoli senza luce e malsani. Nei pozzi si lavorava in un atmosfera da bolgia dantesca, nudi per le elevate temperature e a continuo rischio per la vita, per l'assenza di qualsiasi norma che garantisse un minimo di sicurezza. Il biossido di zolfo che si disperdeva nei pozzi in seguito alla parziale combustione del minerale aveva effetti deleteri sulla salute dei minatori e sull'ambiente.
Sin dalla prima adolescenza i minatori venivano a lavorare nelle pirriere (miniere) per scalare poi con gli anni una complessa gerarchia che prevedeva varie figure di surfarara (minatori). Si cominciava dai carusi, bambini anche di 7-8 anni al servizio dei pirriaturi o picunieri (picconieri), che di solito, erano addetti al trasporto del materiale grezzo dal punto in cui veniva rinvenuto fino alla superficie attraverso una rete di stretti e ripidi dinscenderie (cunicoli) adatti ai loro corpi minuti. A controllare le varie attività vi erano i capumastri (capomastri) che generalmente erano scelti per la loro esperienza e per le loro abitudini dispotiche. Le miniere venivano concesse in affitto ai picconieri (con il sistema delle gabelle), secondo una pratica di tipo feudale. A questo si aggiungevano lo sfruttamento intensivo dei giacimenti senza alcuna progettualità, lo sfruttamento della manodopera (soprattutto minorile), la gerarchia piramidale dei ruoli e la mancanza di garanzie sociali.
La nuova attività comunque, incise profondamente sull'esistenza di diverse generazioni locali che gravitarono attorno alle miniere e ispirò romanzieri, cantastorie e poeti ma non fu veicolo di sviluppo per la regione perché l'organizzazione e la gestione rimasero sempre e comunque di tipo feudale. Non si formò una classe imprenditoriale locale, mancarono gli investimenti e la meccanizzazione. I proprietari del suolo sfruttavano pure il sottosuolo, ma generalmente per ottenere maggiori profitti la superficie veniva frazionata e data in gabella a diversi affittuari. Il grande sviluppo delle zolfare siciliane si ebbe dopo il 1820 quando nell'isola si contavano circa 719 miniere che impiegavano circa 32.136 persone fornendo i 4/5 della produzione mondiale di zolfo. In quel periodo infatti, nel mondo si producevano circa 470mila tonnellate di zolfo e di queste 378mila erano siciliane.
Per quanto riguarda invece, il territorio di Caltanissetta nel 1834 si contavano ben 88 impianti, ma l'improvviso crollo dei prezzi dovuto alla sovraproduzione e alla concorrenza americana portarono all'inesorabile declino delle solfare. Lo zolfo americano infatti, veniva estratto con la sonda Frash molto più rapidamente a costi bassi quindi era più competitivo. La riorganizzazione del settore minerario avviata negli anni '40 dall'Ente zolfi italiani e dopo il 1962 dall'Ente minerario siciliano, non riuscì a risollevare le sorti dell'industria estrattiva siciliana che declinò insorabilmente.
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